L’idea e il sogno
Da bambina rimanevo incantata dai ritratti che mia madre schizzava a matita sui fogli di un’agenda a righe. Passavo ore nella mia stanza a sfogliare il libro di artistica alla ricerca di soggetti, di ispirazione, di modi per trasformare un tratto di matita in qualcosa di “vero”. Ma forse ero troppo giovane per capirlo. Così, ho chiuso la matita in un astuccio, e ho preso la penna.
Al liceo riempivo pagine e pagine di pensieri in un quaderno che condividevo con le mie più care amiche. Loro sorridevano con dolcezza quando sotto la scritta “materia” io scrivevo “la nostra vita”. Forse è da allora che mi sono convinta che la vita sia una materia da studiare, capire, scrivere; di quanto l’inchiostro abbia il potere di assorbire le storie, i ricordi, abbia il potere della memoria.
Un giorno, nei primi anni dell’università, sono entrata in un negozio di articoli d’arte e ho comprato il mio primo vero blocco da disegno e le mie prime matite da adulta. Scoprivo Firenze e scoprivo una parte di me che mi rendeva euforica e spaventava insieme: disegnavo ritratti e mani, divoravo manuali di linguistica e romanzi, sfornavo pan di Spagna e biscotti. Per un certo periodo ho anche pensato di lasciare tutto per aprire una pasticceria (ci penso ancora a volte, per la verità).
Pochi anni dopo ho scoperto che sopra la Coop in cui facevo la spesa ogni settimana c’era la sede di un giornale. Lì ho passato tutti i pomeriggi prima della laurea: tra quelle stanze impregnate di inchiostro ho imparato a rimpastare le parole degli altri e dei comunicati stampa; poi, a entrare nelle vite delle persone in punta di piedi, a raccontare i gesti degli artigiani, a scrivere per essere letta; a rispettare l’arte, anche quella che non capisco; a usare la fantasia nelle parole; a non avere paura del foglio bianco.
Per due anni ho scritto con lo stesso cuore di arte, tè, mostre, gelati, persone, libri; ho pedalato veloce per i vicoli di Firenze, ho salito di corsa decine di scale per arrivare puntuale alle conferenze stampa. Ho infranto il muro della mia timidezza, vinto le mie guance rosse, perché la voglia di scrivere era troppo forte. Ho guardato orgogliosa la mia fototessera incollata sul tesserino di giornalista pubblicista, e poi la me che si è lasciata la porta del giornale alle spalle quando ha preteso inutilmente che il suo lavoro le venisse riconosciuto.
Sono rimasta sul divano per una settimana a guardare “Sex and the city” poi ho acceso il computer, scritto una lettera di presentazione e stampato il mio curriculum vitae; ho ancora il quaderno su cui avevo appuntato l’elenco delle case editrici a cui lo avrei portato. Una di queste era a pochi passi da casa mia: mi ricordo anche il giorno in cui varcai per la prima volta la porta della Cesati Editore, era il 12 settembre del 2011. Tra quelle poche stanze ricolme di libri quasi fino al soffitto, in quell’odore di carta e di sigari al caffè ho imparato quasi tutto ciò che so di libri: la lingua dei simboli tipografici – il legame segreto che si instaura tra redattore e autore; a correggere un testo con rispetto e dedizione; a riconoscere la grammatura della carta sotto i polpastrelli; a viaggiare per mezza Europa con le bozze in borsa, per convegni e fiere del libro; a trasformare un’idea in una scaletta di argomenti, e poi in un indice, in capitoli; a riscrivere stando nell’ombra; a vedere il mio nome in copertina sul libro “Galateo e Bon ton”, anche se per me scrivere un libro significa scrivere un romanzo.
Tutti gli anni aspettavo ottobre come il Natale per immergermi tra le halle della fiera di Francoforte, per respirarne l’aria carica di carta e idee, fare scorta di brezel e di tutto ciò che chi ama la carta può solo sognare. Poi un giorno (era il 2018), mentre svuotavo la valigia ricolma di quaderni, ho pensato per la prima volta a una boutique della carta tutta mia.
Il mio pc è pieno di cartelle con racconti lasciati a metà, di tracce di romanzi, di inizi, di slanci e di disillusioni. “La prima frase è la più difficile” scriveva Henry James in “Ritratto di signora”. Beh, per me la più difficile è sempre stata l’ultima: perché portare a termine qualcosa significa essere anche disposti a fallire.
Questa volta però mi sono detta “devi”. Così ho iniziato da me: un po’ ragione, un po’ sentimento come Elinor e Marianne di Jane Austen; quaderno e penna sempre in borsa, libri e fogli sparsi ovunque, la fissa per i ricordi, la poesia, le lucine di Natale, le macchine da scrivere, la Francia e i dolci, la scrittura come modo per indagarmi, il disegno come forma di spensieratezza.
Ho salutato l’alba per molte settimane mentre disegnavo le prime copertine tra quelle poche stanze ricolme di libri, mandato giù paure, dubbi e litri di caffè, ascoltato musica francese fin quasi a pensare con la erre moscia.
Ho lottato con la mia indecisione di bilancia ma poi ho scelto di puntare tutto (anche i miei risparmi) su un sogno: quello di creare non quaderni e agende qualsiasi ma luoghi di carta a cui affidare progetti, giornate, pensieri; in cui alcune persone potessero riconoscersi, sentirsi un po’ a Parigi un po’ a casa, libere di pianificare senza dimenticare la leggerezza. Che facessero venire voglia di scrivere.
Creare un marchio di cartoleria è stato seguire una volta per tutte quella voce: quella di chi crede che la carta non trattenga solo i caratteri, e i colori, ma i sentimenti, le storie, le idee.
Ho sempre amato definirla “boutique”, sognando di poterne aprire una nei vicoli dell’Oltrarno, un giorno. E quel giorno è arrivato, nel 2021, un giorno che ha unito tutti i sogni, le speranze, i progetti e le strette allo stomaco, come quando sei sulle montagne russe, come quando hai paura e sei felice insieme. Perché fidarsi dei propri sogni richiede anche una buona dose di coraggio.
Ho fantasticato molte volte sulle stanze della mia boutique: adesso mi guardo intorno ed è proprio come l’ho sempre sognato: una grande madia ricolma di carta e tazzine, di macchine da scrivere; di quaderni, matite, segnalibri sistemati in piccoli barattoli vetro, scatole di vecchie foto e cartoline, vasi di fiori secchi, libri usati, pagine sparse, profumo di fogli e biscotti. Un mélange tra un brocante, una cartoleria e una pasticceria.
Un posto traboccante di carta, in cui sentirsi accolti, speciali. Un posto in cui lasciarsi sorprendere con dolcezza, in cui far riaffiorare ricordi, piccole felicità chiuse in un cassetto, in cui scoprire che ciò di cui ha bisogno si colora, si scrive, ha la forma di un quaderno, e soprattutto che diventa molto più che un quaderno quando ci metti la tua vita dentro.
“Vivi e poi scrivi” è la mia filosofia, il mio modo di vedere la vita.
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